20 Lug Premi o punizioni? 5 errori comuni da evitare con bambini e adolescenti
Articolo a cura di Sara Achilli e Fabio Sinibaldi
“Educare” qualcuno non è facile. Ci si ripromette di seguire un atteggiamento specifico, dei principi educativi, ma nel momento di tensione è poi difficile fare la scelta giusta. Tra la fatica emotiva del momento, fattori interferenti non da poco (come stanchezza, stress o irritazioni che si sono generati in altri ambiti ma che sono ancora presenti), il dubbio razionale di che cosa sia più giusto fare, la voglia di non aver problemi, sono tanti i motivi per cui si mettono in atto comportamenti di cui non si è pienamente convinti o, talvolta, di cui non si è nemmeno così consapevoli dell’impatto a medio o a lungo termine. Stiamo parlando di preservare e sviluppare aspetti importanti come fiducia, intesa e connessione, che sono la vera basa di un rapporto educativo e di crescita e non possono, paradossalmente, essere minati ed erosi proprio da tecniche educative poco efficaci.
Questo discorso è valido per genitori, educatori, insegnanti e tutte le figure di cura e sviluppo che hanno a che fare con bambini e adolescenti. Non solo. Con qualche differenza nei modi e nei processi che si attivano, si possono ritrovare molte analogie anche nel modo di interagire tra colleghi o nei rapporti capo-collaboratore.
In questo articolo ci concentreremo su bambini e ragazzi, ma invitiamo tutti a trovare le opportune analogie e i parallelismi con altri ambiti, ci saranno interessanti scoperte.
Per sviluppare disciplina, educazione e apprendimento sono diffuse diverse modalità:
spiegazioni, sgridate, punizioni tramite l’esclusione di privilegi (togliere televisione, giochi o altro), punizioni attive (sistemare la propria stanza), punizioni fisiche (schiaffi e sculacciate), punizioni sociali (umiliazione in pubblico, NB: questa spesso viene agita in modo inconsapevole dal punitore), forzatura del comportamento positivo (scrivere mille volte “sarò bravo”, andare a fare volontariato), esclusione sociale (dall’essere messo in un angolo al più moderno time-out) e altro ancora.
La prima domanda da farsi è: a che cosa servono realmente questi comportamenti?
La seconda domanda è: li si sceglie sulla loro efficacia o per altri motivi?
In particolare: è la prima cosa che viene da fare?
Servono a scaricare la tensione di chi li somministra?
Rappresentano una punizione per quanto è appena successo o vengono dati sulla base di quanto si è accumulato nel tempo?
In questo accumularsi nel tempo, quanto è reale e quanto frutto di fantasia (o per lo meno sarebbe più coretto considerare ipotesi e non certezze?
Vediamo alcuni esempi per capire di che cosa stiamo parlando. Questi esempi rappresentano gli errori più comuni a cui andiamo incontro come genitori, educatori, terapeuti, insegnanti. Si tratta di modalità a cui siamo tutti naturalmente soggetti, non c’è da vergognarsi, ma è utile esserne consapevoli e cercare di massimizzare l’efficacia della parte funzionale di queste risposte.
Spesso quando succede qualcosa che non ci piace, lo comunichiamo urlando. Ci illudiamo che questo ci renda autorevoli, ma in realtà è il contrario: ci fa percepire come persone che hanno perso il controllo, quindi perdiamo fiducia nei nostri confronti. L’urlo serve a scaricare la nostra rabbia, dovuta all’impotenza di non essere riusciti ad evitare questa situazione o al timore di non riuscire
a gestirla (o per alcuni anche dovuta all’essere esposti al giudizio degli altri). La parte del nostro cervello che ascolta il nostro capo-branco urlare lo considera un segnale di pericolo vitale: se il bambino deve essere fermato prima di prendere la scossa o cadere da un muro alto, allora l’urlo è funzionale. Negli altri casi si può alzare la voce senza urlare. Una via di mezzo tra l’urlo istintivo e il parlato normale sarà sufficiente a scaricare la tensione di chi urla, ma aiuterà il bambino ad inquadrare correttamente la situazione e la nostra reazione.
Se ci si ascolta bene, spesso c’è la voglia di punire, si è quasi contenti che il bambino abbia (almeno ai nostri occhi) esagerato, per poter “essere autorizzati” a trattarlo male. In questi casi bisogna
domandarsi qual’è la nostra frustrazione, da dove origina, se è causata realmente solo da un comportamento del bambino, oppure se dipende anche da altri fattori esterni. Per fare un esempio
semplice: è più facile scaricare la rabbia con il figlio che non con i colleghi. In questi casi è utile creare barriere e valvole di sfogo, più o meno dirette: dall’imparare a gestire meglio la comunicazione con i colleghi, al fatto di prendersi qualche minuto prima di tornare a casa dai figli per una passeggiata rilassante, una telefonata per sfogarsi con un amico, 10 minuti di yoga, meditazione o di qualsiasi altra attività per noi rigenerante (sport, musica, ecc.).
Un fattore che spesso crea confusione è l’intenzionalità che attribuiamo a un comportamento. Si sente spesso dire “ma allora lo fai apposta!” o “mi vuoi proprio provocare!”. Domandiamoci, nel massimo della razionalità possibile, quanto hanno senso queste frasi e dove origina la disfunzione.
Se noi diciamo a un bambino di non abbracciarci perché fa caldo, ma il bambino lo fa ugualmente, probabilmente non ci sta provocando o disubbidendo, ci sta solo dicendo che il suo bisogno di contatto è più forte del senso di calore. Questo tipo di disallineamento tra il bisogno del genitore e del figlio può avere un’origine lontana (come il genitore è stato accudito o meno tramite il contatto
fisico) ma, talvolta, anche semplice e di gestione immediata: dandosi un tempo di contatto nonostante il caldo (a volte bastano due minuti); cambiando abbigliamento; andando in una stanza più fresca per coccolare il figlio; se la situazione si ripete in condizioni simili, organizzandosi in modo da garantire il contatto fisico in altri momenti e contesti (ad esempio al mattino, in piscina, ecc.); imparando tecniche di respirazione o altri metodi rapidi per rilassarsi e rendere migliore la propria condizione psico-fisica in tempi brevi.
A volte ci tiriamo la zappa sui piedi da soli. La nostra mente è dotata di capacità previsionali, questo è molto utile in tanti casi della vita, ma talvolta può essere uno svantaggio. A volte i bambini e i ragazzi sono tranquilli, ma noi ci aspettiamo (perché qualche volta è successo) che tra poco inizierà il loro comportamento problematico. È quello che succede quando bisogna uscire per andare a scuola, i bambini giocano, e noi diciamo “adesso usciamo e non cominciate a fare le solite storie”. Magari non le avrebbero fatte, ma il dubbio glielo abbiamo fatto venire noi. Magari le avrebbero fatte, ma rinforziamo – in noi e in loro – l’idea che loro sono fatti così e non ci sono alternative. In questo modo si innesca una competizione negativa, un conflitto che non porta a nulla. Un’alternativa può essere quella di usare la competizione in modo positivo, cosa – tra l’altro – spesso i bambini e i ragazzi fanno già da soli. Si tratta di “fare a gara” a chi arriva prima in macchina, vedere chi si riesce a vestire più in fretta, aggiungendo giocosità e mettendo da parte abitudini e piccole fatiche, ad esempio vedendo se si riescono a vestire mentre lavano i denti, senza sporcarsi di dentifricio. La vera domanda è: è più faticoso lavare una maglietta o essere in conflitto con i figli?
Se si conosce il ciclo neurobiologico attraverso cui si creano le abitudini si sa bene che punire un comportamento non aiuta ad estinguerlo. Funziona molto meglio renderlo più difficoltoso e, di contro, rendere più facile e premiante il comportamento positivo. Umiliazioni, schiaffi, esclusione hanno solo un risultato certo: far vedere che noi siamo cattivi. Pensateci è quello che avete pensato quando siete stati punti.
Anche scrivere mille volte una frase come “devo trattare bene gli altri” non serve a nulla, perché il gesto diventa automatico mentre la testa continua a pensare qualcosa tipo “siete cattivi e non mi capite”. Il bambino non deve odiare noi, ma il comportamento che ha conseguenze negative. Premiare i risultati positivi è facile e piacevole,
quindi conviene farlo ogni volta che viene raggiunto un obiettivo, vengono superate le aspettative o c’è un salto qualitativo. In questo bisogna mediare tra i nostri obiettivi e quelli del bambino, in modo che sviluppi anche motivazione interna e soddisfazione autonoma. Spesso i comportamenti negativi possono essere semplicemente ignorati (così non c’è il premio perverso di essere riusciti a farci arrabbiare). Se proprio c’è un danno a un oggetto o a una relazione ci deve essere la spiegazione e il comportamento che sistema il danno fatto, in modo da diventare responsabili e avere cura attiva. Se si fa male a un altro bambino, lui non vorrà più giocare insieme, è già quella la punizione sociale, non ne serve un’altra. È utile capire perché ci si è arrivati e come recuperare la relazione.