19 Mag Il problema della fiducia – Facile da pretendere, difficile da concedere
Articolo a cura di Fabio Sinibaldi e Sara Achilli
Di quante persone ci fidiamo? È una fiducia totale o parziale? Siamo onesti, fidarsi è difficile. Di contro, desideriamo che gli altri si fidino di noi appena ci conoscono e rimaniamo profondamente delusi se percepiamo che questa fiducia non c’è. Siamo partiti da due punti di vista simmetricamente opposti sulla fiducia, ma ci sono anche altri rilevanti aspetti in gioco quando si affronta questo tema: la fiducia in sé stessi, i legami sociali, i giochi di potere, l’autonomia, i fattori di rischio o protettivi, gli aspetti contestuali, la tendenza al rischio e il bisogno di stimoli e tanto altro. Si tratta di temi che riguardano tutta la nostra esistenza, dall’educazione dei figli al rapporto capo-collaboratore, dalle relazioni di coppia a come facciamo acquisti o prendiamo decisioni importanti. Insomma la fiducia non è qualcosa di semplice, si muove tra bisogni e desideri, tra sopravvivenza e piacere. Vediamo di comprenderne le origini e metterne in luce alcuni aspetti rilevanti per il benessere nostro e altrui. Come sempre nei nostri lavori ci baseremo su un approccio integrato (in questo caso in particolare tra le seguenti discipline: Etologia, Neuroscienze affettive e sociali, Neurobiologia del comportamento) e la loro applicazione in chiave operativa.
Dentro o fuori di noi?
Quando non percepiamo fiducia tendiamo ad attribuire questa percezione all’esterno: valutiamo di essere in una situazione pericolosa o di fronte a una persona di cui non ci si può fidare. Eppure la fiducia è innanzitutto un moto interiore. Si tratta di un meccanismo simile a quello che succede con le emozioni. Tendiamo a dire “lui mi ha fatto arrabbiare”, ma un pensiero più consapevole della dinamica interna sarebbe “io ho provato rabbia per quello che lui ha fatto o detto”. Una valutazione del genere porta l’attenzione sul meccanismo adattativo ed evolutivo della rabbia, difenderci da un certo tipo di pericoli: è il nostro sistema di sicurezza che sta lavorando sui rischi, i pericoli e sulle risorse interne ed esterne che abbiamo per affrontarli. Allo stesso modo la fiducia ha una sua funzione e specifici obiettivi per la nostra sicurezza e sviluppo: accettare che “io non mi fido di quella persona per questo o quel motivo” rappresenta un ottimo punto di partenza. Questo ci mette nelle condizioni di avere uno strumento in più per noi e di muovere i passi successivi in una direzione costruttiva e consapevole.
Un comportamento evolutivo
La domanda di partenza è: a che cosa serve fidarsi? Perché gli uomini hanno sviluppato questa abilità? Se la mancanza di fiducia fa tanto male e la sua presenza non avesse uno scopo adattivo, questa modalità si sarebbe estinta con il procedere del tempo. Invece no. Anzi, la fiducia sembra avere un ruolo fondamentale al giorno d’oggi ma, come spesso succede (ad esempio lo abbiamo visto per emozioni e sistema immunitario), le abilità che oggi usiamo sono nate e si sono sviluppate parecchio tempo prima, in contesti e condizioni piuttosto differenti.
Un fenomeno multi-fattoriale
La fiducia è un fenomeno complesso, costituito da un’abilità – basata sul percepire e valutare – e dai comportamenti che ne conseguono, ad esempio stringere legami affettivi e sociali, cooperare, evitare persone o situazioni, ecc. Come specie di mammiferi gli umani nascono tra i più incompleti e meno autonomi. Un cucciolo d’uomo non è in grado di nutrirsi o prendersi cura di sé da solo. Di contro, per queste funzioni ci basiamo totalmente su una figura in grado di darci cura, protezione e sostentamento. Per questo motivo diventa da subito importante capire di chi potersi fidare o meno. Per farlo mettiamo in gioco diverse competenze e strumenti: da un meccanismo di base totalmente inconsapevole come l’imprinting (attaccamento verso la prima figura di cura incontrata) a meccanismi più sofisticati basati sull’interazione di processi emotivi, riflessi automatici, neurobiologia interpersonale, marcatura epigenetica, dinamiche da branco e, più avanti nel tempo, schemi cognitivi.
A cosa serve la fiducia
Le relazioni servono alla nostra sopravvivenza e, poi, al nostro sviluppo fisico e mentale. Le relazioni “giuste” possono portare grande vantaggio e ridurre stress e fatica in modo notevole. Di contro le relazioni “sbagliate” possono costarci molto caro, sia in termini di sicurezza che di fatica fisica ed emotiva. La fiducia serve a scegliere e gestire queste relazioni. La sua funzione è così primaria e vitale che i circuiti cerebrali su cui si basa sono condivisi da tutti i mammiferi. Si tratta di circuiti profondi, che attivano – in caso negativo – gli stessi processi del dolore fisico, per darci un chiaro segnale del rischio degli svantaggi che possiamo correre perdendo la relazione o entrando in una sbagliata (1). Allo stesso modo si attiva significativamente anche il sistema immunitario proprio per preparare il corpo alle difficoltà a cui potrà andare incontro (2). Se invece la fiducia funziona su registri positivi, si attivano i circuiti del piacere, fondamentali per l’apprendimento, il consolidamento dell’auto-stima e per rinforzare gli stessi legami sociali (3).
Come funziona (o meno)
La fiducia nasce come processo graduale e tenuto sotto monitoraggio. La fiducia si sviluppa in modo progressivo e reciproco. In questo sono spesso più bravi gli altri mammiferi rispetto all’uomo. Vediamo nella tabella seguente alcuni comportamenti per come sono connaturati nei mammiferi evoluti (colonna di sinistra), rapportati ad alcune domande e osservazioni su come le applica l’uomo.
Quindi cosa fare?
Per rimettere la fiducia in condizioni di fare il suo lavoro ed essere una funzione utile e non un elemento di frustrazione o dipendenza, è necessario tornare alle origini della funzione stessa. Come abbiamo visto nei paragrafi e nella tabella precedente la fiducia funziona correttamente se si basa su una raccolta graduale di indizi, su relazioni bi-direzionali e reciproche, su prove concrete. I possibili rischi ed errori in cui l’uomo può cadere sono dovuti innanzitutto al non accettare queste pre-condizioni che, in quanto tali, non possono essere by-passate. Ma c’è altro, spesso avvengono interferenze tra la funzione iniziale della fiducia e i bisogni disfunzionali che una persona ha maturato per le esperienze vissute in passato. Questo porta a non essere oggettivi, a filtrare la percezione e la valutazione che facciamo rispetto ai dati raccolti. Questo ci rende vulnerabili a promesse, seduzioni, aspettative forzate e altre modalità più o meno coscientemente manipolatorie che gli altri mettono in atto. Per gestire tutti questi aspetti e fornire spunti concreti, basati su solide basi scientifiche e riscontri pratici, abbiamo elaborato il Modello dei Valori-Comportamenti Evolutivi, un approccio che può essere applicato a tutte le relazioni, dalla famiglia al lavoro, dai contesti educativi ai processi di auto-sviluppo. Si basa sull’individuazione di 6 valori alla base del comportamento di ogni capo-branco verso sé stesso e verso gli altri e di 7 aree di comportamenti con cui questi valori possono prendere forma. Si tratta di valori e comportamenti che si rinforzano a vicenda e che sostengono processi evolutivi sia in chi li manifesta che in chi li riceve. Si tratta di comportamenti e valori individuati osservando le relazioni costruttive in diverse specie di mammiferi, isolando quei fattori e quelle modalità sempre efficaci, escludendo invece quanto poteva essere ambiguo o potenzialmente distorto.
Questo modello è il risultato di anni di ricerca e applicazioni pratiche in differenti contesti, da quello educativo agli ambienti di lavoro. Tuttora continuiamo ad applicarlo e a svolgere ulteriori ricerche, in modo da affinarlo sempre più e da tenere in considerazione anche i cambiamenti culturali e sociali in continua rapida evoluzione. Se vuoi sapere come questo modello può fare la differenza a livello educativo e di cura, aiutando genitori, educatori, insegnanti e terapeuti, puoi apprenderne i fondamenti scientifici e conoscerne gli strumenti pratici nel corso:
Bibliografia
1.a Burklund, L. J., Eisenberger, N. I., & Lieberman, M. D. (2007). Rejection sensitivity moderates dorsal anterior cingulate activity to disapproving facial expressions. Social Neuroscience, 2, 238–253. 1.b Chen, Z., Williams, K. D., Fitness, J., & Newton, N. (2008). When hurt will not heal: Exploring the capacity to relive social and physical pain. Psychological Science, 19, 789–795. 1.c MacDonald, G., & Leary, M. R. (2005). Why does social exclusion hurt? The relationship between social and physical pain. Psychological Review, 131, 202–223. 2.a Eisenberger NI, Inagaki TK, Rameson LT, Mashal NM, IrwinMR(2009): An fMRI study of cytokine-induced depressed mood and social pain: The role of sex differences. Neuroimage 47:881– 890. 2.b Reichenberg A, Yirmiya R, Schuld A, Kraus T, Haack M, Morag A, Pollmächer T (2001): Cytokine-associated emotional and cognitive disturbances in humans. Arch Gen Psychiatry 58:445– 452. 2.c Wright CE, Strike PC, Brydon I, SteptoeA(2005): Acute inflammation and negative mood: Mediation by cytokine activation. Brain Behav Immun 19:345–350. 3.a O’Connor, M. F., Wellisch, D. K., Stanton, A., Eisenberger, N. I., Irwin, M. R., & Lieberman, M. D. (2008). Craving love? Enduing grief activates brain’s reward center. NeuroImage, 42, 969–972. 3.b Leung, K., & Bond, M. H. (1984). The impact of cultural collectivism on reward allocation. Journal of Personality and Social Psychology, 47, 793–804. 3.c Aron, A., Fisher, H., Mashek, D. J., Strong, G., Li, H., & Brown, L. L. (2005). Reward, motivation, and emotion systems associated with earlystage intense romantic love. Journal of Neurophysiology, 94, 327–337. http://dx.doi.org/10.1152/jn.00838.2004